IL MORTAIO

 

Questo oggetto è strettamente legato alla lavorazione del maiale. Nonna Gemma ne cresceva più di uno. Al momento del loro sviluppo, ai maschi venivano evirati i testicoli, allo scopo di farli crescere di peso maggiore. Ricordo che Nonna Gemma  li prelevava dalle mani del castra-porci, e lo stesso giorno, fatti a pezzettini, li stufava in un tegame con schizzi di vino bianco e cipolla fresca. Per me rappresentavano una vera “delizia del palato”. E quanti ne ho mangiati negli anni dell’adolescenza. Ricordo anche che a quei tempi, Nonna Gemma, nel vendere gli agnelli ai macellai del posto, si faceva riservare per me le quattro estremità degli stinchi. Ed io ne ero ghiotto. Lo stesso accadeva per le interiora dei polli. Questo gusto si è traferito Nonna Gemma al  mio DNA e da me a quello di Karol.

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Quando giungeva il tempo dell’ingrassamento del maiale, Nonno Luigi, con la collaborazione dei figli, o dei braccianti, ammazzava il maiale, i cui strilli facevano eco in tutta la vallata. Con due fori tra i nervi degli stinchi inferiori, conficcava un asse di legno, appositamente prodotto e, con una carrucola, lo appendeva, testa in giù, per eviscerarlo.

 

Disponeva di un set di coltelli, per le diverse operazioni. Ero molto curioso e non mi perdevo nessuno dei suoi gesti. La prima cosa che Nonno faceva era il recupero del sangue che poi sarebbe stato usato per realizzare il sanguinaccio. Poi, con una mano ferma, impugnato un coltello affilato, faceva un taglio attraverso tutta la lunghezza della pancia. Dentro una bacinella tirava fuori tutte le componenti dell’apparato digerente del maiale. Le donne di casa Cocomello, mia madre in testa, erano incaricate di recarsi nel vicino rio “Ausente” e nell’acqua fresca, corrente, allora pura senza alcun inquinamento, provvedevano a far pulizia al loro interno. Nonno Luigi intanto provvedeva, sempre aiutato, alla depilazione del maiale. Si utilizzavano dei fasci di strame, ai quali si dava fuoco e poi si lavava con acqua bollente tutta la pelle del maiale. Pulizia accurata delle orecchie, asportazione delle unghie dei quattro piedi. Sino al giorno successivo,  avvolto in un candido lenzuolo la bestia restava appeso per raffreddarsi. Queste operazioni venivano fatte sempre in inverno, giacché l’aria fredda faceva meglio conservare, seppure per una notte le carni.

Il giorno dopo, in un ambiente chiuso della casa, per difendersi dalle mosche, Nonno Luigi realizzava un piano inclinato di legno molto incavato, nel quale sarebbero stati posti ossa, lardo di colonnato, pancette, capocollo e parti della testa, pronti per la salatura. Tutto ciò restava, ben coperto da un lenzuolo per una Intera settimana. Su un grande tavolo restavano tutte le carni per le salcicce:

  • Parti grasse da aggiungere al sangue (raffermo) per il sanguinaccio;
  • Parti magre per le salsicce definite “di carne”;
  • Parti contenenti tutte le interiora definite in Spignese (annuglio), che, unite alle ossa dissalate, per stufare le verze, ottime per la cucina invernale.

Queste carni, tutte tagliate a pezzettini, “a punta di coltello”. Pur disponendo di tritacarne a manovella, a quei tempi ancora non c’era la corrente elettrica per usare quelle motorizzate. Adagiate in apposite piccole “madie” di legno, Nonno le condiva con sale, peperoni amari, pitartela, pepe e una schizzata di vino bianco. Dopo aver fatto un segno di croce, per ogni madia,  e le passava alle donne. Queste, con pezzi di corno di vacca, infilato in ciascun budello dello stesso animale, già legato all’estremità, in modo preventivo, spingevano le carni, con una certa pressione, e di tanto in tanto, con una forchetta, punzecchiavano il budello, non solo per far uscire l’aria, ma per compattare il più possibile le carni. Le salsicce restavano nella madie per una notte e l’indomani sarebbero state appese, nel sottotetto, in ambiente molto arieggiato. Con bracieri e erbe scelte dalle donne, con una certa sistematicità, le affumicavano per aromatizzarle. Quando l’essiccazione era completata, si poteva finalmente assaggiarle. Quando l’inverno lasciava lo spazio alla primavere imminente, le salsicce, a pezzi, entravano in contenitori di vetro, sott’olio, e così potevano essere consumate per i mesi avvenire. Altra metodologia, Nonno Luigi, l’ applicava per realizzare ottimi “capocolli” e pancette arrotolate.

In ognuna di queste operazioni fungeva da strumento imprescindibile il nostro MORTAIO. Infatti in questo oggetto si frantumavano tutte le spezie. Ora è rimasto solo come ricordo e giace sulla mensola del focolare e i giovani della famiglia, purtroppo lo ignorano. All’età di 70  anni, Nonno Luigi è deceduto, ma già da qualche tempo io avevo rimpiazzato il Maestro. Nella (tribù) era già entrata a far parte a pieno titolo mia Moglie Giuditta che, insieme a Mamma Francesca divennero per molti anni il team per la lavorazione del maiale che cresceva mia Madre. La nostra preferenza era sempre per i maiali neri perché le carni si presentavano meno grasse. Come lungamente spiegato qui, vale il famoso detto “del maiale non si butta nulla”.

 

By La Redazione

Editore Ulissseland Journal

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